Il centro dell’equilibrio
 

Ancora una volta l’impossibile restare o il semplice ricordo di essere stati

Per cui si conclude che niente c’è sotto l’ombra che il bambino

solleva come una pelle scorticata

 
José Saramago: L’anno mille993
                       
 
 
          Fu nel silenzio della sua camera che l’equilibrio venne meno.
          Il quadrante della sveglia gli ricordava che erano le tre del mattino. L’ennesima notte insonne di quella maledetta estate. Era sudato e faticava a respirare. Si era girato e rigirato nel letto come una mosca intrappolata nella tela di un ragno. Le lenzuola di lino sembravano volerlo strangolare.
           Era rimasto da solo nel buio della stanza, seduto sul letto col petto appoggiato alle ginocchia e le braccia strette attorno alle gambe. Aveva pianto. Aveva alzato gli occhi al soffitto come se fosse stato cielo e aveva spalancato la bocca in un urlo muto: silenzio che si perse nel silenzio della stanza. La camera era un’enorme campana priva di battaglio; era un buco nero che inghiotte qualsiasi suono; era la bocca spalancata di un uomo a cui era stata strappata la lingua. Lui era la lingua. Era ormai incapace di qualsiasi gemito o lamento da quanto si erano strette attorno a lui quelle tenaglie che l’avevano sradicato dal proprio alveo. Era una lingua palpitante che si dibatteva come la coda spezzata di una lucertola. Era stretto in un pugno che gli toglieva il fiato. Era prigioniero di quella morsa di dolore.
             L’insonnia si era impadronita di lui da troppo tempo. Era il ripetersi costante di una goccia d’acqua che cade da un rubinetto mal chiuso. Era il cristallo bugiardo di uno specchio finto che non riflette alcuna realtà. Era il filo a piombo che oscilla come un pendolo senza mai alterare il proprio moto. Era una bottiglia vuota che è stata messa a testa in giù, poggiando sul tappo e con la base rivolta verso il soffitto.
              Basta!, disse a sé stesso senza che un singolo fonema uscisse dalla sua bocca.
              Basta!, disse alla stanza vuota portandosi le mani alla testa e facendo scivolare le dita fra i capelli.
               Passo la mano. Non mi diverto più. Mi chiamo fuori.
               C’era una sola parola che gli affiorava sulle labbra. Era una parola di quattro lettere proprio come di quattro lettere era il nome del gioco a cui la voleva apporre: quel gioco che le persone chiamano vita. Riuscì ad articolarla con un movimento veloce della bocca: alzò leggermente il labbro superiore scoprendo i denti, mentre la lingua andava a battere contro il palato per poi riporsi nel proprio alveo.
               “Fine!”, disse nelle tenebre della camera infrangendo il rumore del silenzio.

               Si alzò dal letto e si sedette alla scrivania del proprio studio. Accese il computer che era stato il suo fedele compagno di lavoro degli ultimi anni. Aprì il Word6 e scrisse una lettera a Serena. Quando ebbe terminato, la stampò e la rilesse con attenzione. Non apportò nessuna correzione. La firmò solamente con il proprio nome di battesimo: Federico.