Alla Luce delle Candele (estratto dal capitolo Il Patologo, pagg. 92-97)

         

 

All’una e dieci, mi trovavo di fronte all’ospedale. Raggiunsi l’ufficio del mio amico patologo e bussai alla sua porta.

          “Avanti, avanti”, disse Mauro Braschi.
          “Buongiorno, dottore”, dissi ancora sulla soglia.
          “Oh Carlo. Ti stavo aspettando. Entra e accomodati. Perdonami, ma dovrai pazientare un attimino”.
          Mauro Braschi era seduto dietro alla propria scrivania e aveva davanti a sé alcuni fogli che stava compilando come se fossero un test a crocette. Conoscevo quell’uomo da quando ero bambino. Come ho già detto, era stato un grande amico dei miei genitori. Aveva circa settant’anni. Era quasi pelato e piuttosto in carne. I pochi capelli che aveva gli crescevano sui lati della testa formando due ciuffi che egli trascurava alquanto. Questi due ciuffi insieme agli occhiali a fondo di bottiglia, che ingigantivano le sue iridi azzurre, gli conferivano l’aspetto tipico dello scienziato un po’ pazzo.
          “Ecco fatto!”, disse con quella voce roca da fumatore incallito. Infilò due dita in una tasca del camice bianco estraendo un pacchetto di Camel senza filtro. Tossì. Prese una sigaretta e la mise in bocca per poi accenderla con il proprio accendino d’oro. Non aveva ancora inspirato la prima boccata di fumo, quando tossì ancora. Raccolse quei fogli che aveva compilato e li mise in una cartella di plastica.
          “Allora, mio caro”, disse. “Come stai?”.
          “Piuttosto bene”.
          “Mmm… dal tuo aspetto non si direbbe. Con quante ragazze sei fidanzato?”.
          “Non con molte”, risposi sorridendo.
          “Eh, sei un gran rubacuori”. Si alzò in piedi. “Dài, andiamo al ristorante che abbiamo un sacco di cose da raccontarci”.
          “Sì. Però prima vorrei chiederti un favore”.
          “Tutto quello che vuoi”, disse portandosi la sigaretta alle labbra.
          “So che hai fatto tu l’autopsia a quella ragazza assassinata. A Delia Grandi”.
          “Sì, perché?”, mi chiese tornando a sedersi sulla propria poltrona. Il volto aveva perso la sua abituale aria gioviale.
          “Volevo chiederti se hai una fotografia del suo viso. Credo che si tratti di una ragazza che avevo conosciuto un po’ di tempo fa”.
          “Mmm… sì, ce l’ho”. Restò a guardarmi pensieroso. Poi aprì un cassetto e ne estrasse una cartella rossa chiusa con un elastico nero. L’aprì e frugò tra i fogli che conteneva. Mise una fotografia sulla scrivania e la spinse verso di me.
          “È lei?”.
          Non ebbi neppure bisogno di prendere in mano la fotografia per guardarla più attentamente. Era proprio la Delia con cui avevo flirtato per sei mesi. Mi si strinse il cuore. La nostra storia non era finita nel migliore dei modi
          come se, quando una storia finisce, ci fosse un modo buono
e da allora non c’eravamo più sentiti. Questo non pregiudicava il fatto che io conservavo un buon ricordo di Delia. Purtroppo mi era già successo di dover affrontare la morte di una persona che avevo amato. E devo ammettere che, a distanza di così tanti anni, Delia non mi era particolarmente cara. Tuttavia era la prima volta che mi trovavo di fronte alla morte di una donna che era stata mia. Era anche la prima volta che un assassinio efferato e crudele aveva coinvolto un mio conoscente, toccando così, anche se solo indirettamente, me stesso.
          “Sì, è lei”, confermai dopo quasi due minuti di assoluto silenzio.
          “Era una tua amica?”.
          “No”, risposi meccanicamente. “Era una ragazza con cui ho avuto una storia alcuni anni fa”.
          “Carlo… mi dispiace tanto”.
          “È buffo”, dissi. “In tutti questi anni non ho mai pensato a lei. Forse, se l’avessi incrociata per la strada, non l’avrei neppure riconosciuta. Ora che so che è morta, è come se si fosse aperto un cassetto del mio cervello in cui erano chiusi tutti quei ricordi che la riguardano. Ricordo le nostre lunghe passeggiate nei boschi. Lei ne andava matta. Adorava i boschi, specie in autunno. Aveva una personalità malinconica. Era dolce e fragile. Ed era anche una bella donna”.
          “Sì, questo lo immagino. Mi dispiace, Carlo”.
          “E di che cosa? Non è mica colpa tua se è morta. E poi, come ti ho detto non mi sono più interessato a lei”.
          La verità è che non mi ero più interessato alla sua vita. Non me ne era fregato niente in tutti questi anni di come potesse stare né di sapere se era felice. Solo la sua morte aveva avuto la forza di far rivivere in me il suo ricordo.
          “Tutto ciò è crudele”, commentai a voce alta.
          “Sì, è stata una morte atroce”.
          Alzai gli occhi verso il patologo e gli sorrisi amaramente.
          “Non mi riferivo alla sua morte, Mauro. Parlavo della nostra indifferenza. Delia è una donna con cui ho fatto l’amore. Era una donna con cui ho condiviso sogni, desideri, momenti belli e momenti brutti. Era una donna con cui ho passato una parte, una piccola parte della mia vita. È amaro ammettere che, dopo averla lasciata, di lei non me ne è fregato più niente fino a quando non ho saputo della sua morte”.
          “Carlo, noi non possiamo curarci della vita di tutte le persone che incontriamo durante il nostro viaggio in questo mondo. Voi avete condiviso una parte di questo viaggio, poi le vostre strade si sono separate e ognuno ha proseguito per la sua. Il viaggio di questa ragazza è giunto alla fine e a te non resta che il ricordo del tragitto che avete percorso insieme. Questa non è indifferenza. Delia vivrà sempre nel tuo ricordo fino a quando anche il tuo viaggio sarà concluso. Da quel momento in poi entrambi vivrete nel ricordo di un’altra persona. Questa è la vita”.
          “Lo so, Mauro. So che è la vita e so anche che è crudele”.
          Restammo in silenzio per un po’. Quando vide due lacrime esili scendere sul mio viso, Mauro mi abbracciò. Cercò di confortarmi, mentre io non sapevo se stessi piangendo per Delia o per me stesso. Forse piangevo per la mia superficialità nell’affrontare i rapporti umani; forse piangevo per l’aridità del mio spirito.
          Quando ormai credevo che avrei saltato il pranzo, con mia grande meraviglia lo stomaco cominciò a reclamare il proprio bisogno di cibo. Credevo che le emozioni di quelle ultime ore mi avessero reso inappetente, invece non era accaduto.
          Il dottor Braschi e io andammo in una trattoria che si trovava di fronte all’ospedale. Era un posticino intimo e grazioso dove si mangiavano degli ottimi primi. Dopo esserci seduti a un tavolino, Mauro mi chiese come me la stessi passando. Gli dissi che era un buon momento e che avevo una relazione con Claudia, che lui conosceva piuttosto bene. La conversazione, tuttavia, tornò presto a cadere sull’assassinio di Delia.
          “Vedo che questa storia t’interessa molto”, rilevò il patologo.
          “Ti sembra forse che io sia troppo interessato?”.
          “No, non volevo dire questo”, rispose scuotendo la testa e alzando le mani con le palme verso di me. “Scusami, non volevo essere brusco, ma sai com’è…”.
          “Certo che lo so. E so anche che secondo la legge e secondo il vostro codice deontologico non dovresti dirmi niente di questo caso”.
          “Eh già, è proprio così!”. Restò in silenzio per qualche istante. Era pensieroso. Mi sembrò che stesse soppesando la situazione e che stesse valutando la natura del mio interesse verso quell’omicidio.
          “Tu esattamente che cosa vorresti sapere?”.
          “Io vorrei conoscere i particolari della sua morte”. Lo dissi con una freddezza scientifica che mi fece gelare il sangue nelle vene.
          “Come mi hai ricordato tu stesso, io non dovrei dirti proprio un bel niente dal momento che c’è un’inchiesta in corso. Ma è anche vero che io sono vecchio e, alla mia età, la memoria può giocare degli strani scherzi, infatti, mi sono già dimenticato quello che tu mi hai ricordato poc’anzi. Chissà che cos’era… non ricordo proprio. Vuoi che scenda nei particolari?”.
          “Te ne sarei grato”.
          “Non esserne tanto sicuro”. Fece una pausa e si schiarì la voce, sempre roca a causa del fumo. Accese una nuova sigaretta e poi continuò a parlare.
          “La ragazza è stata torturata a morte”, disse. “La causa del decesso è uno shock traumatico progressivo”.
          “Di che cosa si tratta?”.
          “Si tratta di un caso di morte ritardata, cagionata da traumi. La ragazza ha subito un numero di torture assai elevato. Ognuna di queste è stata perpetrata su un’area localizzata del corpo dando luogo a un trauma più o meno grave. Ognuno di questi traumi, preso singolarmente, non sarebbe sufficiente a causare la morte, ma presi tutti insieme hanno prodotto quello che si chiama shock traumatico progressivo. A questo deve aggiungersi tutta una serie di piccole emorragie e di stravasi ematici di lieve entità, che hanno aggravato la condizione dell’organismo. In lei non sono stati lesionati i centri vitali. Non aveva nessuna perdita emorragica sufficiente a cagionare la morte come per esempio la recisione dell’aorta oppure la perforazione di un organo tipo il fegato. La ragazza è semplicemente stata torturata a morte. Non le è stato inferto un colpo di grazia. Fino all’ultimo momento avrebbe potuto salvarsi se il suo carnefice avesse cessato le vessazioni che stava operando, ma egli ha voluto continuare a infierire su di lei, con un accanimento terribile, fino a quando non ha avuto la certezza che fosse morta. Addirittura alcune lesioni che ho riscontrato le sono state perpetrate quando era già morta, ma l’assassino, probabilmente, non se ne era ancora reso conto. Il genere di torture adottato fa subito pensare a un delitto a sfondo sessuale, ma bisogna stare attenti e fare una distinzione. Spesso i delitti a sfondo sessuale sono giochi erotici che sono stati portati involontariamente all’eccesso, oppure sono delitti attraverso i quali si vuole punire la sessualità di un soggetto. In questa seconda ipotesi generalmente si tratta di delitti commessi da persone la cui psiche è stata irrimediabilmente compromessa dallo scontro tra il loro es, l’istanza psichica che secondo Freud è dominata dal principio del piacere, che è la scaturigine di tutti i nostri desideri e bisogni, e tra il loro super-io, che è l’istanza psichica che limita l’es ed è formata da tutti gli insegnamenti sociali, morali e religiosi che ci vengono trasmessi dal mondo che ci circonda. Il nostro assassino sembra appartenere a questa seconda categoria, ma presenta molte anomalie. Egli non ha ucciso per errore, voleva che la ragazza perdesse la vita. Tuttavia egli ha, in un certo senso, compiuto una vera e propria esecuzione scegliendo una morte lenta. Per spiegarmi meglio, voglio dirti che avrebbe potuto scegliere la lapidazione o ucciderla a martellate partendo dalle parti distali del corpo…”.
          “Le parti distali?”.
          “Sì. Le braccia e le gambe. Immagina che una persona cominci a darti una martellata sull’alluce di un piede e che poi colpisca il dito accanto e quello dopo ancora. È possibile che tu muoia prima ancora che egli sia arrivato a lederti un organo vitale. Tu moriresti per uno shock traumatico progressivo. Ovviamente, prima che tu possa spirare è probabile che il tuo carnefice ti abbia maciullato sia le braccia sia le gambe… una martellata alla volta”.
          “Sei stato molto chiaro”, dissi.
          “Bene. Il nostro assassino ha voluto torturare sessualmente la vittima. Forse l’ha convinta a prestarsi spontaneamente proponendole un gioco erotico, ma il suo scopo era ucciderla. È possibile che lui l’abbia voluta punire per qualche cosa, ma potrebbe anche darsi che l’abbia uccisa solo per il proprio piacere sessuale. È possibile che egli si ecciti solo attraverso due elementi: lo stato di sofferenza dell’oggetto del proprio desiderio sessuale e la consapevolezza di avere un dominio assoluto sulla propria vittima. Tale dominio si concretizza solo attraverso la progressiva distruzione fisica e psichica della persona, fino al momento estremo che è la sua morte”.
          “Ma come fai solo dall’analisi di un cadavere a dedurre tutte queste cose?”.
          “Se tu avessi visto quello che questo mostro ha fatto a quella povera ragazza, avresti la risposta alla tua domanda”.
          “Descrivimi queste torture”.
          “Al di là della morbosità di ciò che mi stai chiedendo, credi di essere in grado di sopportare quello che potrei dirti?”.
          “Sì”.
          “Guarda che si tratta di cose veramente truci. Ti giuro, Carlo, che non ho mai visto niente di simile in tutta la mia carriera. E tu sei a conoscenza di quanti delitti a sfondo sessuale ho dovuto trattare e discutere anche in tribunale”.
          “Sì, lo so”.
          “E nonostante questo vuoi davvero che ti racconti?”.
          “Certo! Lo sai che sono una persona curiosa”.
          “Sì, questo è vero. E, forse, mai come questa volta è stato vero il detto: la curiosità uccise il gatto”.
          “Su dài! Non farti pregare”.
          “Peggio per te! La ragazza è stata legata più volte, in posizioni differenti, sia con corde sia con manette. I segni delle manette erano sui polsi e sulle caviglie. Un particolare curioso che ho rilevato consiste nel fatto che sono stati utilizzati anche gambali e bracciali imbottiti, di quelli che non lasciano segni particolarmente evidenti. Sono molto apprezzati da chi si limita a fare dei giochi sadomaso. Ho trovato delle fibre dell’imbottitura sia sulle caviglie sia sui polsi. Anche questo lascia pensare che la vittima sia stata attratta dal proprio carnefice con la scusa di un gioco erotico. Inoltre ho constatato la totale assenza di ferite da difesa. Anche da questo discende il fatto che la vittima si è prestata volontariamente alle prime restrizioni della propria libertà di movimento. Ho riscontrato poi i segni di tre differenti tipi di corda. I primi erano sulle braccia e sulle gambe. Dalle ecchimosi riscontrate intorno all’escoriazione provocata dalla corda reputo che la ragazza sia anche stata sospesa. Un polso era slogato e altre articolazioni erano lesionate. Un secondo tipo di corda le ha lasciato escoriazioni ed ecchimosi sul collo. Il torturatore l’ha più volte soffocata, senza ovviamente toglierle la vita. Un terzo tipo di corda ha lasciato tracce intorno ai seni, intorno alla vita e sul pube. Quest'ultima corda deve essere stata usata sia per le sospensioni di cui ho parlato prima sia semplicemente per lesionare le parti carnose del corpo. È probabile che il carnefice le abbia legato ciascun seno solo per farlo gonfiare e poter torturare meglio tale parte delicata infliggendo maggior dolore”. 
          Il patologo fece una pausa durante la quale mi osservò con attenzione.
          “Vedo che sei molto attento”, disse. “Ma non ti vedo affatto sconvolto”.
          “Quello che mi hai detto fino a ora non è così sconvolgente”.
          “Già. Forse non per tutti lo è, dato che c’è gente che prova addirittura piacere a farsi fare le cose che ti ho descritto fino a ora. Comunque proseguo. La ragazza è stata frustata sia con un gatto a nove code, sia con un oggetto duro e flessibile, probabilmente una canna di bambù. Da questo supplizio nessuna parte del corpo è stata risparmiata. L’ha percossa dalla pianta dei piedi fino al viso. Naturalmente le parti contro cui si è accanito maggiormente sono i seni, i glutei, il ventre e il pube. Solo sulle natiche però la fustigazione è stata così violenta da arrivare a rompere la pelle della vittima dando luogo a dei sanguinamenti. Ora hanno inizio le torture propriamente dette”. S’interruppe nuovamente, questa volta per bere un sorso di vino e accendersi una nuova sigaretta.
          “Le sono stati conficcati spilli di varia grandezza sotto le unghie e sulle parti carnose. Ancora una volta le aree più colpite sono i seni, in particolare i capezzoli, e le labbra della vagina. A tutto questo aggiungi ustioni inferte con ferri roventi e con fiamma viva. In vari casi sono state utilizzate delle candele: ho rinvenuto alcune tracce di cera. La lesione più grave provocata dal fuoco è stata la perdita dell’occhio sinistro. Vi erano ustioni rilevanti sia sull’ano sia sulle labbra della vagina, ma alcune di esse potevano aver avuto uno scopo meramente cauterizzante per arrestare delle perdite ematiche. Altre ustioni, di minor rilevanza, le sono state inflitte con la punta di uno o più sigari. Vari tagli le sono stati inferti su tutto il corpo con un rasoio. Nessuna ferita mutilante, solo soluzioni di continuità superficiali, mai profonde. Nelle ferite così aperte è stato introdotto del sale. Aveva alcune articolazioni slogate, una frattura all’anca e due costole incrinate. Le unghie di entrambe le mani le erano state strappate e due dita completamente schiacciate. Con un martello le sono stati massacrati i piedi. Lesioni più gravi e profonde le sono state inferte con un oggetto che non sono riuscito a identificare e che è stato utilizzato per stuprarla e per sodomizzarla. Questo le ha cagionato delle ferite piuttosto gravi con perdite di sangue rilevanti. La membrana vaginale e le pareti dell’intestino retto erano letteralmente massacrate. L’oggetto doveva essere irregolare, tipo un segmento di un ramo d’albero, non troppo grosso né molto lungo (al massimo quindici centimetri con un diametro di quattro o cinque centimetri). Questo ha lasciato conficcate nel corpo della vittima alcune schegge. Non ti so dire l’ordine esatto in cui queste torture sono state eseguite, ma immagino che l’assassino abbia cominciato con le più leggere per poi arrivare alle più gravi. L’agonia della ragazza deve essere durata circa trentacinque ore, durante le quali non le sono mai stati somministrati cibi né acqua. L’assassino si riposava e poi riprendeva a torturala. La morte risale a circa le diciannove di domenica sera. Inoltre, ma questo quando la ragazza era già morta, il suo utero è stato sfondato con qualche cosa di acuminato e sottile”.
          Mauro Braschi mi guardò. Sembrava quasi divertito.
          “Finalmente sono riuscito a farti cambiare faccia! Ora sembra proprio che tu debba vomitare”.
          In effetti, provavo un profondo senso di nausea, ma non credevo che si vedesse.
          “Allora Carlo… ho soddisfatto la tua morbosa curiosità?”.
          “In effetti… no”, dissi appigliandomi a tutta la mia freddezza e a tutta la mia razionalità. “Mi hai descritto abilmente l’operato di un macellaio, ma non mi hai detto niente di quello che io volevo sapere”.
          Il patologo inarcò le sopracciglia. “E che cos’è che vuoi sapere?”.
          “Voglio sapere se hai trovato tracce di sperma. Se sei in grado di stabilire il sesso e l’età dell’assassino. Se hai una idea della sua stazza fisica. Se si tratta di un solo assassino o di più carnefici. Se la ragazza era stata drogata. Se vi sono collegamenti magari con qualche setta satanica…”.
          “Va bene, ho capito! Nessuna droga nel sangue. Nessun simbolo che possa far pensare a una setta satanica. Non ci sono tracce di sperma né di altro liquido organico. Il genere di torture perpetrate mi porta a pensare che l’assassino sia un uomo tra i trenta e i quarant’anni, ma niente esclude che si tratti di una donna. L’assassino inoltre deve essere robusto: non è facile prendere un cadavere e gettarlo in un cassonetto. Niente esclude che le torture siano state eseguite da più di una persona, ma, anche in questo caso, lo giudico poco probabile a causa dell’accanimento specifico. Se gli esecutori fossero stati più di uno, la mente che ha determinato il loro operato è comunque la stessa. Trattandosi di un omicidio che deve essere incominciato sotto le false spoglie di un gioco erotico è possibile che ci fosse una persona che impartiva ordini, un cosiddetto dominatore, uno o più schiavi che eseguivano e infine la vittima”.
          “Credi che sia un omicida seriale?”.
          “No. Ha ucciso quella donna perché voleva uccidere proprio lei. Non si tratta di una vittima occasionale. Può darsi che questo assassino uccida ancora, ma solo se ha uno scopo ben determinato. Non lo fa solo per procurarsi piacere… c’è qualcos’altro, ma non riesco ancora a individuare di che cosa si tratti. L’ispettore Marinari mi ha fatto questa stessa domanda…”.
          “L’ispettore Marinari? Credevo che il caso lo seguisse il mio amico Massimiliano Grimaldi”.
          “L’incaricato del caso è l’ispettore Marinari, Grimaldi è un suo sottoposto e partecipa a quest’indagine. La tesi che per ora ha elaborato Marinari non mi convince. Lui è convinto che l’assassino sia solo un pervertito con dei problemi di erezione e che per risolvere questo problema debba ricorre a dei giochi erotici. Questo per lui sarebbe solo un gioco erotico finito male. Poi però mi ha chiesto se potrebbe trattarsi di un assassino come il mostro di Firenze. Da questo ho desunto che forse ha abbandonato quella sua teoria”.
          Mauro mi osservò con molta attenzione. Posò le mani sul tavolino, l’una raccolta nell’altra e mi guardò dritto negli occhi.
          “Carlo, io e te dobbiamo parlare. Devi spiegarmi che cos’è che ti preoccupa. Non sei particolarmente addolorato per la morte di questa Delia, ma sei assai preoccupato di conoscere lo stato delle indagini. Ti comporti come se fossi coinvolto nell’omicidio. Se non ti conoscessi bene come ti conosco, credo che dovrei sospettare di te. Guarda che, anche se credessi che tu fossi coinvolto, ti direi quello che ti sto dicendo. Anche se non ti conoscessi e credessi che tu fossi l’assassino potrei dirtelo perché non ti gioverebbe minimamente. Non riesco a capirti! Posso solo assicurarti che nessuno sta indagando su di te e, d’altro canto, non vedo perché dovresti essere indagato per l’omicidio di una donna che non vedevi da sei anni. Tu sei un ragazzo intelligente e certo non vai a crearti assurde paranoie. Quindi sono portato a credere che tu non mi abbia raccontato qualche cosa di fondamentale. So solo che non stai parlando con me per mera curiosità. Tu hai paura!”.
          “La tua diagnosi è ineccepibile, dottore!”.
         “Perché dovresti essere coinvolto nelle indagini?”.